MALEDIZIONE E BENEDIZIONE DEL LAVORO

Quale salvezza nella rivoluzione digitale?

La domanda che ci dobbiamo porre riguarda la possibilità, nell’età della tecnica, e ancora prima in quella del mercato, che il lavoro possa effettivamente essere la leva di sviluppo dei propri talenti, di realizzazione della propria identità e non solo un mezzo di sopravvivenza più o meno agiata.

P.Iacci, U. Galimberti, Dialogo sul lavoro e la felicità

È da questa domanda che voglio partire.

Istintivamente non siamo portati ad associare il concetto di lavoro a quello di realizzazione, almeno non in prima battuta. Forse siamo rimasti ancorati a quella infausta profezia del libro della Genesi (cap.3, versetti 17-19) in cui, come conseguenza del peccato, Dio dice ad Adamo:

il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita. Esso ti produrrà spine e rovi, e tu mangerai l’erba dei campi; mangerai il pane con il sudore del tuo volto.

Eppure è a partire dalla stessa Genesi che possiamo far risalire una teologia del lavoro in cui l’uomo, in quanto custode del giardino, è chiamato a una missione: prendersi cura del creato e in questo modo partecipare alla creazione stessa rendendo il mondo un posto più abitabile.

Ma allora il lavoro è una maledizione o una benedizione?

Andiamo a ritroso e facciamo una piccola ed estrema sintesi storica dei significati che ha assunto il lavoro nelle varie epoche.

Storia del lavoro

Nell’antica Grecia il lavoro era più simile ad un’attività artigianale-artistica, una techne (in greco tecnica o arte) attraverso cui l’uomo, esprimendo i propri talenti, produceva qualcosa che, nella divisione dei compiti, permetteva la soddisfazione dei bisogni di tutti. Nel conoscere la propria natura e realizzare quindi la propria vocazione (il proprio daimon) l’essere umano raggiungeva la felicità (per approfondire leggi Articolo: Divieni chi sei nel tuo lavoro). 

L’ozio poi era tanto importante quanto il lavoro. Lotium degli antichi era l’agire libero dagli ingranaggi produttivi e non aveva niente a che fare col senso che diamo noi oggi alla parola a cui associamo lo svago necessario alla ripresa per una più alta efficienza lavorativa. Non un tempo di semplice “stacco”, ma un tempo liberato utilizzato per l’opera, la creatività, lo studio, le relazioni etc.

Questa organizzazione sociale tuttavia era basata su una netta divisione tra uomini liberi e schiavi. Gli uomini liberi potevano dedicarsi alla espressione creativa di sé e potevano avvicendare negotium e otium in modo fluido solo grazie al fatto che tutti i lavori di fatica necessari alla mera sussistenza erano affidati agli schiavi.

Fu a partire dal Medioevo, e in particolare grazie all’opera del monachesimo di San Benedetto, che il lavoro manuale acquistò la dignità che gli attribuiamo anche noi moderni (o che per lo meno diciamo di attribuirgli), mentre l’ozio cominciò ad assumere una connotazione negativa. Il lavoro era servizio alla comunità e in quanto tale una liberazione dal proprio ego. Aveva un senso profondamente spirituale tanto da essere equiparato alla preghiera (il famoso detto Ora et Labora).

Durante l’età moderna con il fiorire del commercio e degli scambi inizia a vacillare la distinzione netta in classi sociali e proprio il lavoro diventa il mezzo fondamentale per emanciparsi dalla propria estrazione sociale e ottenere benessere e successo (come suffragato dall’etica protestante).  

Con la rivoluzione industriale assistiamo ad una crescente parcellizzazione del lavoro che porta in sé il rischio di alienazione (come teorizzato da Marx: il lavoratore non ha più il controllo sul prodotto finale quindi il lavoro diventa una mera merce di scambio).

Questo rischio di alienazione, in forme nuove, lo vediamo attuarsi anche oggigiorno nelle grandi multinazionali in cui ciascuno si occupa solo di una piccola parte del tutto (informatici che passano le giornate a produrre linee di codice che non si sa bene a cosa serviranno o outsourcer che devono intervenire su aspetti di un prodotto mai visto e conosciuto sono solo alcuni esempi).

E ora?

Sembra che l’imperante e incessante digitalizzazione stia riproducendo quella polarizzazione bene-male del lavoro che abbiamo invocato all’inizio con il libro della Genesi.

Abbiamo infatti filosofi come Umberto Galimberti che sostengono che il lavoro possa essere una fonte di felicità solo per un ristretto manipolo di privilegiati perché per la maggior parte di tutti gli altri è una esecuzione di prestazioni al servizio dell’apparato tecnico. Un’immagine del lavoro umano sempre più subalterno alla macchina.

La tecnica non promuove un senso, non salva, non redime, non dice la verità. La tecnica funziona.

P.Iacci, U. Galimberti, Dialogo sul lavoro e la felicità

Eppure non mancano schiere di filosofi, scienziati, economisti che vedono proprio in questo sviluppo tecnologico l’epoca in cui è finalmente possibile la liberazione dell’uomo dalla coazione del lavoro.

Gli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale potranno infatti svolgere tutte le mansioni ripetitive e meccaniche dandoci la possibilità di occuparci degli aspetti più creativi, divertenti e, perché, no liberando anche tempo da dedicare ai propri interesse (come possiamo vedere da alcune sperimentazioni della settimana di 4 giorni lavorativi).

Grazie alla rivoluzione digitale sarà possibile per un numero molto più elevato di persone fare un lavoro che coinvolge, in cui è possibile innovare e in cui quindi, forse per la prima volta nella storia dell’impresa, autorealizzazione e produttività posso coincidere.

Senso del lavoro

Sembra che sia tutt’ora molto complesso rispondere al quesito relativo alla natura salvifica o meno del lavoro. Del resto in tutte le più importanti attività umane sappiamo che non esiste una Verità, un’unica versione dei fatti, ma molto dipende dal modo attraverso cui noi viviamo quei fatti.

Presupponendo che devono sussistere delle condizioni di lavoro degno, senza le quali a mio parere non è possibile poter intraprendere alcun tipo di discorso successivo, mi ritrovo nell’affermazione di Simon Weil secondo cui:

il senso di essere utile e perfino indispensabile, sono bisogni vitali dell’anima umana

Simon Weil, La prima radice.

Nel diario semi-biografico di Dostoevskij «Memorie da una casa di morti», l’autore racconta di come, nonostante il lavoro coatto e durissimo che lui e i suoi compagni erano costretti a fare, la vera tortura non fosse la fatica del lavoro in sé ma la percezione della sua inutilità. Lo stesso Primo Levi affermò in una intervista a Philip Roth:

Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del ‘lavoro ben fatto’ è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale

Volendo continuare a parlare di lavoro in condizioni estreme non posso non citare un autore a me molto caro: Viktor Frankl. Uno psicologo e psichiatra ebreo sopravvissuto ai campi di sterminio e padre dell’analisi esistenziale e della logoterapia. Viktor Frankl ebbe l’intuizione che l’attribuire un significato alla propria esistenza fosse ciò che ha tenuto in vita tanti prigionieri dei Lager; laddove coloro che percepivano tutto inutile e senza senso si ammalavano e morivano di più (per approfondire leggi Articolo Autorealizzazione come vocazione).

L’essere umano ha una volontà di significato che ci porta a cercare un senso della nostra esistenza. Questo significato si trova precisamente:

  • in un lavoro o portando al termine un’azione
  • sperimentando qualcosa o incontrando qualcuno
  • reagendo a sofferenze inevitabili

In sintesi per Frankl il lavoro, anche quello forzato, ha un orientamento vocazionale:

Ognuno ha la propria specifica vocazione o missione nella vita e vuole o deve raggiungere un obiettivo concreto e specifico. In questo senso, non può prendere il posto di nessuno e nessuno può prendere il suo posto.

Viktor E. Frankl L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nei Lager e altri scritti inediti

Conclusioni

Nell’epoca delle Intelligenze Artificiali che sostituiscono il lavoro umano (nel bene e nel male) che sia proprio questa la differenza tra l’uomo e la macchina? I robot possono replicare tutto, ormai anche le emozioni, ma non la ricerca del senso.

Quante volte ci fermiamo a chiederci che senso abbia il nostro faticare quotidiano? Quale è il nostro Big Why? La spinta propulsiva che ci fa alzare dal letto la mattina?

Che il lavoro sia una maledizione o una benedizione dipende soprattutto da questo: dal valore che gli attribuiamo, da quanto lo riteniamo utile e dal contributo che sentiamo di dare attraverso di esso.

Quante volte capita infatti di sentirsi scarichi a fronte di una giornata poco impegnativa, ma inconcludente, mentre siamo pieni di energia e vitali anche a seguito di giornate intense e faticose fisicamente e mentalmente?

Spesso riteniamo che questa attribuzione di significato debba provenire dall’esterno. Che serva un capo illuminato, una riorganizzazione, una carta etica a dovercela indicare. Di conseguenza scarichiamo anche all’esterno la causa della nostra insoddisfazione.

Ma si tratta di una responsabilità innanzitutto nostra ed è per questo che un percorso di Coaching per la propria professione può essere un valido enzima per risvegliare questa volontà di significato e dare nuova linfa alle proprie giornate (e se non è possibile trovare linfa nel proprio posto di lavoro capire insieme dove la si può trovare).

Forse il segreto per uscire dalla maledizione di Genesi che grava sul lavoro non è solo lavorare 4 giorni a settimana, o promuovere smartworking etc. (tutti approcci decisivi per far sì che il lavoro possa essere una fonte di autorealizzazione), ma innanzitutto abbracciare una nuova filosofia del lavoro. Passare da una logica di lavoro come produzione (in cui l’obiettivo è il Quanto) ad una logica di lavoro come servizio (dove l’obiettivo è il Come, la relazione, la cura).

Come diceva Carlos Castaneda:

Soffermarsi troppo sull’io causa una terribile stanchezza. Un uomo in questa condizione è sordo e cieco a tutto il resto: è la stanchezza stessa a fare sì che non veda più le meraviglie che lo circondano.

Bibliografia




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