LA RICERCA DELLA FELICITÀ RENDE FELICI?

La ricerca della felicità

La ricerca della felicità è diventata il grande obiettivo della moderna società della performance. Costantemente sottoposti alla pressione di dover raggiungere determinati standard abbiamo fatto della felicità l’ultimo step da conseguire per una vita di successo. Questo spirito di accrescimento, non a caso valorizzato anche dalla cultura americana, è stato mostrato anche da Chris Gardner nel noto film La ricerca della felicità. Chris infatti è un uomo che si impegna al massimo ed è pronto a tutto pur di trovare il suo posto nel mondo, realizzare il suo sogno e dare alla sua famiglia delle condizioni di vita migliori.

Nonostante il nobile racconto di questa straordinaria figura, l’apologia della felicità (nella pubblicità, sui social etc.) rischia di creare un modello astratto a cui aspirare che aumenta il divario con la concretezza della vita vissuta. Siamo di fronte ad un ennesimo imperativo di miglioramento personale che imperversa su di noi che, dopo estenuanti giornate di lavoro, sentiamo il dovere di dedicarci a sport, lettura, yoga, meditazione etc. per poter dire di esserci occupati di noi stessi, della nostra crescita.  Con il risultato che quando non riusciamo a fare tutte queste attività ci colpevolizziamo e riteniamo di non essere all’altezza. Perciò, in fondo, se non siamo felici è perché non siamo abbastanza efficienti. Tanto più l’industria della felicità fiorisce (app, manuali, corsi etc.) tanto più ce ne allontaniamo. Il paradosso è questo: la ricerca della felicità rende infelici.

Due diverse felicità

Fortunatamente ci vengono in soccorso gli antichi filosofi che distinguevano due concetti diversi di felicità.

Da una parte c’è la felicità edonica (dal greco edoné: piacere): la felicità legata al principio del piacere, ad uno stato mentale ed emozionale positivo. È la gioia del momento (quando ottieni un riconoscimento, quando compri la casa che tanto desideravi). Questa felicità è per sua natura passeggera e per quanto ciascuno di noi speri di arrivare alla fine della propria vita avendo trascorso quante più giornate possibili di questo tipo, queste non potranno mai compensare un’esistenza fondata sull’ordinarietà, sulle fatiche del lavoro e sulle attività quotidiane.

Come possiamo dire allora, non di avere dei momenti felici, ma di essere felici?

Il secondo tipo di felicità di cui parla la filosofia greca è la felicità eudaimonica (eu daimon: buon demone). L’etimologia richiama a una condizione interna piuttosto che a una condizione esterna (l’essere e non il possedere). L’eudaimonia non è un’effimera emozione; piuttosto una pratica consapevole della persona, un’arte di vivere basata sulla virtù. È un agire, qualcosa che si fa. Quindi lungi dall’essere un concetto teorico, era un esercizio quotidiano di nutrimento della propria anima, un ethos, una disposizione stabile del carattere a vivere all’altezza del proprio potenziale e a dare un contributo alla società.

Secondo questo approccio ci si avvicina alla felicità tanto più si esce da sé e ci si concentra sulla felicità degli altri.

La psicologia positiva

Questo concetto si avvicina a quello che la psicologia positiva (M. Seligman) ha definito felicità come competenza: una scelta consapevole da allenare e sviluppare tutti i giorni.

Emily Esfahani Smith, che ha studiato la psicologia positiva, ha scritto un libro molto interessante: Cercare la felicità non rende felici. All’interno potete trovarvi un’attenta riflessione sugli aspetti della nostra esistenza che producono una felicità eudaimonica intesa proprio come attitudine, come sguardo verso noi stessi, gli altri e il mondo. Secondo l’autrice la ricerca del senso è ciò che rende felici e questa è basata su quattro fattori:

  • relazioni
  • scopo
  • trascendenza
  • narrazione
  1. Relazioni. Lo diceva anche Aristotele: siamo animali sociali. I legami di appartenenza (famiglia, comunità, lavoro) rispondono al un bisogno costitutivo dell’uomo di dare e ricevere amore.
  2. Scopo. Intercettare lo scopo significa conoscere il perché faccio quello che faccio. Non si identifica con il lavoro, ma comprende il lavoro. Se facciamo un lavoro senza un Perché forte, senza credere di poter avere un impatto positivo con le nostre azioni, difficilmente riusciremo ad essere felici (forse al massimo potremo stare bene…a tratti)
  3. Trascendenza. A prescindere dalle nostre fedi, l’umanità da sempre si è interrogata sul mistero della vita. Le religioni, i miti, sono i modi con cui l’uomo ha cercato le risposte a questo mistero. Anche la filosofia del resto, lungi dall’essere una mera spiegazione razionale della realtà, si è sempre confrontata con questa Alterità radicale, con la ricerca di ciò che non si vede e che tuttavia percepiamo presente.
  4. Narrazione. Dice Daniel Taylor: “ognuno è il prodotto delle storie che ha ascoltato e che ha vissuto”. La narrazione è un elemento fondamentale per costruire significati intorno a una serie di eventi che altrimenti sarebbero tra di loro sconnessi. Ognuno di noi racconta a se stesso la propria storia personale e il tipo di storia che ci raccontiamo definisce i nostri pensieri e le nostre azioni. Un evento tragico, per esempio, può essere qualcosa che distrugge la nostra vita o può essere il punto di svolta per un profondo cambiamento verso chi vogliamo davvero essere. Dipende da come lo raccontiamo e ce lo raccontiamo.

Conclusioni

In sintesi, perseguire costantemente la felicità intesa come emozione di piacevolezza che rifugge il dolore e la sofferenza insita nella vita significa paradossalmente allontanare da sé la possibilità di essere felici. La filosofia antica e la psicologia positiva moderna sono dei potenti alleati nel nostro percorso di fioritura personale e ci aiutano a trasformare il nostro naturale desiderio di felicità in una progettualità di vita, rendendo il nostro percorso, al di là dei piaceri e dei dolori che incontreremo, un percorso che vale la pena di essere attraversato.

di Sara Labanti – Career&Learning Coach

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